Un corpo avvelenato da barbiturici. Dei tagli su un
polso. Una mente esausta sconfitta dalla depressione. Un silenzio avvolgente
attorno, a casa. 26 luglio 1971. In questo giorno muore Diane Arbus, mito della
fotografia, colei che aveva ritratto la sovversione estetica rappresentata dai freaks, umani deformi, categoria sociale già famosa per i personaggi di Freaks, film horror del
1932. Scopriamo la sua figura e quelle di coloro che tanto l'hanno affascinata.
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Ritratto di Diane Arbus |
Dalla prima creatività, alla società emarginata, all’ordinario senza filtri
Diane Nemerov, vero nome dell’artista, nasce da una famiglia
ebrea di origini russe. È iniziata alla fotografia da Allen Arbus, che sposa a
18 anni, da cui prenderà il cognome. Nella scuola della sua formazione
incomincia a esprimere e poi a sviluppare la creatività. Elabora i primi
contenuti della sua arte provocatoria a lezione di disegno da un’illustratrice
del negozio di pellicce del padre, in passato allieva del pittore tedesco
George Grosz (dallo stile violento volto alla denuncia sociale). Con il marito
lavora nella moda, fino alla separazione, che segna anche una rottura artistica.
L’artista racchiude in sé le influenze di Aleksej
Česlavovič Brodovič (direttore artistico
di Harper's Bazaar), Berenice Abbott (fotografa), di amici,
ma soprattutto di Lisette Model, di cui segue lezioni alla New School For
Social Research, la quale la stimola a una ricerca originale, verso soggetti da
cui era attratta per davvero.
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Al bar, di fronte alla Arbus, Jack Dracula |
Nel periodo di crisi coniugale conosce i freaks e il loro baraccone, che non
potranno sfuggire all’ottica della sua Nikon 35 mm; questi soggetti
appartengono a una versione del volto della società oscurata ed emarginata dai
più come forma dell’orrore. E ancora travestiti, nudisti, tatuati (tra cui Jack Dracula, “un festival dell’orrore semovente”, parole di David J. Skal in The Monster Show: Storia e cultura
dell’horror).
La sua ricerca della realtà cruda e piena di difetti la
porta a imprimere volti e corpi tralasciando ogni maschera, abbellimento,
formalità; per vedere con occhi puri. Anziani, giovani coppie, bambini;
chiunque, anche dell’ordinario, lei volesse strappare dal flusso temporale e
isolare in un’immagine statica. Immagini che non sono doni della casualità.
Scrive Richard Evedon: “tutto
quello che le accadeva sembrava misterioso, decisivo e inimmaginabile,
naturalmente non per lei. E questo capita solo ai geni”.
L’incontro con i freaks
I soggetti di maggior scalpore dei rullini della Arbus sono
individui deformi, con malattie congenite; qualcuno potrebbe pensare a “vite
non degne di essere vissute”, e forse la stessa artista; ma non senza rimanerne
affascinata.
Ottobre 1961. New
York Theatre, Manhattan. Un’assai curiosa Diane Arbus era giunta qui per
guardare di nuovo, in proiezione, donne dalla testa piccola a punta con qualche
ciuffo di capelli solo in alto; le chiamavano pinheads. Ma non le uniche figure a comparire in quello sfondo: vi
erano anche nani con testoni, gemelli siamesi, un uomo senza braccia e gambe,
un ragazzo nato a metà, uno scheletro umano e altri portenti. Il film si chiama
Freaks (1932; qui un trailer), classico dell’orrore
girato da Tod Browning (noto anche per la pellicola di Dracula), in passato un’attrazione di spettacoli nelle fiere; e non
per l’aspetto, stavolta, ma in qualsiasi attività. Il ruolo più riuscito? “Ipnotico
cadavere vivente”. La prima esperienza di Diane con i freaks (anormali) risale alla volta in cui l’amico gallerista Emile
de Antonio gliel’ha fatto conoscere.
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Parte del cast di Freaks: i deformi |
Ha già strappato alcuni scatti a gemelli e
nani e, dopo la scoperta di quel film, comincia a frequentare all’Hubers Museum, uno degli ultimi freak show americani.
Questi fenomeni della natura, dapprima contrari alla presenza dell’artista,
accettano poi di essere fotografati. Tra questi un ragazzo foca, un uomo con tre gambe, una donna cannone. E non manca il rapporto tra artista e
soggetto, tipico dell’esperienza della Arbus, che le permette di saggiare molto
più di quei frammenti di realtà delle sole foto.
Con tanta passione è stata una delle prime ad approcciarsi
a quella realtà marginale. La scrittrice Susan Sontag la riteneva una
rappresentante della “«sovversione estetica», un fenomeno peculiare degli anni ’60
che promuoveva «la vita come spettacolo orrorifico come antidoto alla vita come
noia» (David J. Skal in The Monster Show:
Storia e cultura dell’horror). Sempre per la Sontag, la Arbus, con la sua
arte, favoriva una desensibilizzazione delle persone verso una tale realtà
orribile, per ridurre l’impatto con ciò che è terribile ed evitare (quasi) una reazione
verso persone che prima o poi potremmo incontrare nella vita; la consapevolezza
verso queste figure aiuta ad avvicinarsi e sentirle più normali, inoltre.
La sovraesposizione all’orrore che diventa depressione e porta alla morte
L’insegnante che tanto l’aveva
influenzata le diceva di divertirsi con le foto e di scegliere ciò che
desiderasse. Nella sua ricerca, però, Diane era andata ad affrontare una realtà
divenuta una rivelazione per lei: non si trattava più di attori del grande
schermo ma di “mostri” reali. Quella che era stata una fonte di interesse per l’artista
si sdoppia irrimediabilmente come il contenitore delle sue paure. Andava oltre
la lotta quotidiana contro la noia, e diventava una sovraesposizione all’orrore,
a una realtà che la condizionava nelle suoi recessi profondi. «L’avevano sempre
eccitata, sfidata e terrorizzata perché sfidavano tante convenzioni. Talvolta
pensava che il proprio terrore fosse legato a qualcosa radicato nel subconscio»
(Patricia Bosworth, Diane Arbus).
Insieme all’uso eccessivo di
antidepressivi, per il disturbo da sempre avuto, l’epatite contratta stava
debilitando sempre più il suo fisico. “Gli ultimi anni della Arbus furono
rattristati da instabilità e depressione” […]. Era “una donna prostrata e
distrutta dalle immagini che maneggiava” (David J. Skal in The Monster Show: Storia e cultura dell’horror). In ogni caso, la sua
situazione personale contrastava con l’eco che nella cultura le sue immagini da
incubo avevano trovato. Il conflitto tra eccitazione e orrore, in lei soprattutto nella
sua esperienza con i freaks, è un
carattere che giace nel profondo dell’uomo (perché tutti, più o meno, abbiamo
provato attrazione per il proibito e l’orrorifico); ma la mancanza di controllo
delle due forze può portare alla sofferenza, e questa a mettere fine a tutto.
“Ho sempre pensato alla
fotografia come una cosa indecente da fare – era uno degli aspetti che
preferivo di questa […] e quando l’ho fatto per la prima volta mi sono sentita
molto perversa”, scriveva Diane (Susan Sontag, Sulla fotografia). In questo giorno, nel 1971, è morto un mito della
fotografia, un’amica degli emarginati, un’artista dalla sovversione estetica,
che ci ha lasciato la sua arte a caro prezzo.
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Profilo di Diane Arbus |