mercoledì 26 luglio 2017

La fotografia e la sovversione estetica: Diane Arbus

Un corpo avvelenato da barbiturici. Dei tagli su un polso. Una mente esausta sconfitta dalla depressione. Un silenzio avvolgente attorno, a casa. 26 luglio 1971. In questo giorno muore Diane Arbus, mito della fotografia, colei che aveva ritratto la sovversione estetica rappresentata dai freaks, umani deformi, categoria sociale già famosa per i personaggi di Freaks, film horror del 1932. Scopriamo la sua figura e quelle di coloro che tanto l'hanno affascinata.


Ritratto di Diane Arbus

Dalla prima creatività, alla società emarginata, all’ordinario senza filtri

Diane Nemerov, vero nome dell’artista, nasce da una famiglia ebrea di origini russe. È iniziata alla fotografia da Allen Arbus, che sposa a 18 anni, da cui prenderà il cognome. Nella scuola della sua formazione incomincia a esprimere e poi a sviluppare la creatività. Elabora i primi contenuti della sua arte provocatoria a lezione di disegno da un’illustratrice del negozio di pellicce del padre, in passato allieva del pittore tedesco George Grosz (dallo stile violento volto alla denuncia sociale). Con il marito lavora nella moda, fino alla separazione, che segna anche una rottura artistica. L’artista racchiude in sé le influenze di Aleksej Česlavovič Brodovič (direttore artistico di Harper's Bazaar), Berenice Abbott (fotografa), di amici, ma soprattutto di Lisette Model, di cui segue lezioni alla New School For Social Research, la quale la stimola a una ricerca originale, verso soggetti da cui era attratta per davvero.

Al bar, di fronte alla Arbus, Jack Dracula
Nel periodo di crisi coniugale conosce i freaks e il loro baraccone, che non potranno sfuggire all’ottica della sua Nikon 35 mm; questi soggetti appartengono a una versione del volto della società oscurata ed emarginata dai più come forma dell’orrore. E ancora travestiti, nudisti, tatuati (tra cui Jack Dracula, “un festival dell’orrore semovente”, parole di David J. Skal in The Monster Show: Storia e cultura dell’horror).

La sua ricerca della realtà cruda e piena di difetti la porta a imprimere volti e corpi tralasciando ogni maschera, abbellimento, formalità; per vedere con occhi puri. Anziani, giovani coppie, bambini; chiunque, anche dell’ordinario, lei volesse strappare dal flusso temporale e isolare in un’immagine statica. Immagini che non sono doni della casualità. Scrive Richard Evedon: “tutto quello che le accadeva sembrava misterioso, decisivo e inimmaginabile, naturalmente non per lei. E questo capita solo ai geni”.

L’incontro con i freaks

I soggetti di maggior scalpore dei rullini della Arbus sono individui deformi, con malattie congenite; qualcuno potrebbe pensare a “vite non degne di essere vissute”, e forse la stessa artista; ma non senza rimanerne affascinata.

Ottobre 1961. New York Theatre, Manhattan. Un’assai curiosa Diane Arbus era giunta qui per guardare di nuovo, in proiezione, donne dalla testa piccola a punta con qualche ciuffo di capelli solo in alto; le chiamavano pinheads. Ma non le uniche figure a comparire in quello sfondo: vi erano anche nani con testoni, gemelli siamesi, un uomo senza braccia e gambe, un ragazzo nato a metà, uno scheletro umano e altri portenti. Il film si chiama Freaks (1932; qui un trailer), classico dell’orrore girato da Tod Browning (noto anche per la pellicola di Dracula), in passato un’attrazione di spettacoli nelle fiere; e non per l’aspetto, stavolta, ma in qualsiasi attività. Il ruolo più riuscito? “Ipnotico cadavere vivente”. La prima esperienza di Diane con i freaks (anormali) risale alla volta in cui l’amico gallerista Emile de Antonio gliel’ha fatto conoscere.

Parte del cast di Freaks: i deformi

Ha già strappato alcuni scatti a gemelli e nani e, dopo la scoperta di quel film, comincia a frequentare all’Hubers Museum, uno degli ultimi freak show americani. Questi fenomeni della natura, dapprima contrari alla presenza dell’artista, accettano poi di essere fotografati. Tra questi un ragazzo foca, un uomo con tre gambe, una donna cannone. E non manca il rapporto tra artista e soggetto, tipico dell’esperienza della Arbus, che le permette di saggiare molto più di quei frammenti di realtà delle sole foto.

Con tanta passione è stata una delle prime ad approcciarsi a quella realtà marginale. La scrittrice Susan Sontag la riteneva una rappresentante della “«sovversione estetica», un fenomeno peculiare degli anni ’60 che promuoveva «la vita come spettacolo orrorifico come antidoto alla vita come noia» (David J. Skal in The Monster Show: Storia e cultura dell’horror). Sempre per la Sontag, la Arbus, con la sua arte, favoriva una desensibilizzazione delle persone verso una tale realtà orribile, per ridurre l’impatto con ciò che è terribile ed evitare (quasi) una reazione verso persone che prima o poi potremmo incontrare nella vita; la consapevolezza verso queste figure aiuta ad avvicinarsi e sentirle più normali, inoltre.

La sovraesposizione all’orrore che diventa depressione e porta alla morte 

L’insegnante che tanto l’aveva influenzata le diceva di divertirsi con le foto e di scegliere ciò che desiderasse. Nella sua ricerca, però, Diane era andata ad affrontare una realtà divenuta una rivelazione per lei: non si trattava più di attori del grande schermo ma di “mostri” reali. Quella che era stata una fonte di interesse per l’artista si sdoppia irrimediabilmente come il contenitore delle sue paure. Andava oltre la lotta quotidiana contro la noia, e diventava una sovraesposizione all’orrore, a una realtà che la condizionava nelle suoi recessi profondi. «L’avevano sempre eccitata, sfidata e terrorizzata perché sfidavano tante convenzioni. Talvolta pensava che il proprio terrore fosse legato a qualcosa radicato nel subconscio» (Patricia Bosworth, Diane Arbus).

Insieme all’uso eccessivo di antidepressivi, per il disturbo da sempre avuto, l’epatite contratta stava debilitando sempre più il suo fisico. “Gli ultimi anni della Arbus furono rattristati da instabilità e depressione” […]. Era “una donna prostrata e distrutta dalle immagini che maneggiava” (David J. Skal in The Monster Show: Storia e cultura dell’horror). In ogni caso, la sua situazione personale contrastava con l’eco che nella cultura le sue immagini da incubo avevano trovato. Il conflitto tra  eccitazione e orrore, in lei soprattutto nella sua esperienza con i freaks, è un carattere che giace nel profondo dell’uomo (perché tutti, più o meno, abbiamo provato attrazione per il proibito e l’orrorifico); ma la mancanza di controllo delle due forze può portare alla sofferenza, e questa a mettere fine a tutto.




“Ho sempre pensato alla fotografia come una cosa indecente da fare – era uno degli aspetti che preferivo di questa […] e quando l’ho fatto per la prima volta mi sono sentita molto perversa”, scriveva Diane (Susan Sontag, Sulla fotografia). In questo giorno, nel 1971, è morto un mito della fotografia, un’amica degli emarginati, un’artista dalla sovversione estetica, che ci ha lasciato la sua arte a caro prezzo.

Profilo di Diane Arbus

lunedì 3 ottobre 2016

Venerdì 13: la colonna sonora

Venerdì 13 è un film horror del 1980. Viene diretto da Sean S. Cunningham e la colonna sonora è curata da Harry Manfredini, il quale ha lavorato per diversi sequel dell’omonima saga. Il maestro di Chicago ha studiato musica classica e composto musica jazz. Per quest’horror produce una musica articolata dall’andamento prevalentemente irregolare, che crea scontri tra i vari strumenti impiegati. Nei momenti in cui il ritmo è regolare riecheggiano delle sillabe che riprendono una battuta del testo e la loro presenza sostituisce quella del killer.


Le sequenze musicali
Nel film le sequenze musicali sono varie: violini sulla stessa corda, o su due note che si scambiano di continuo; e così pure i bassi; ottoni con note isolate; accordi riverberanti; note martellanti che si ripetono per brevi periodi, o anche queste riverberanti, che formano piccole melodie in ripetizione, al pianoforte; tastiere.

Tutti questi, o quasi, vengono utilizzati in due momenti differenti per andamento : in uno abbiamo sequenze semplici con ritmi lenti e di apparente tranquillità, ma che trasmettono ansia e tensione e preparano alle scene di sangue.

In un secondo vi è una rottura: un’atmosfera caotica, confusa, irrazionale, prende il sopravvento; i suoni ora si sentono, ora non si sentono, cercano di disorientare lo spettatore, portando l’attenzione da uno ad un altro. Il tutto mentre chi guarda ha gli occhi fissi sullo schermo; si crea un gioco casuale, ma che in realtà accentua il senso di tensione e di orrore della scena. I violini “impazziti”, che ripetono due note, innescano disegni rapidi e strappi che rimandano, senza nessuna finzione, all’Herrmann di Psyco. Il tributo evidente al film è inserito nel tema principale presente in apertura, il “tema di Jason”, “Overlay of  Evil” (copertura del cattivo). Il titolo descrive la funzione di questo brano, ma anche di altri : chi uccide (il cattivo) non compare e al suo posto c’è la musica, che copre come componente filmica.
Ecco il Main Theme

Nella colonna solo due brani hanno un carattere diverso: “Banjo Travellin'”, allegra e veloce esecuzione di banjo, alquanto ripetitiva, con una accompagnamento di percussioni; il tema finale, malinconico, all’inizio una lenta melodia al pianoforte con morbidi violini che poi si trasforma: abbandona i violini, acquista dei suoni distorti, probabilmente di una chitarra, e suoni di batteria, mantenendo il piano.


Il riverbero vocale
Harry Manfredini sceglie di far entrare in scena questo sottofondo (“Overlay of  Evil”) e molti altri per annunciare la vicinanza e sostituire la presenza dell’assassino. Non manca il riverbero vocale, anche se una o poche volte per tema.

C’è la musica: il killer spietato pronto all’atto omicida è nei pressi della vittima. La musica continua e si intensifica: la macchina da presa è di fronte alla vittima, solo due volte assume il punto di vista del killer (l’inquadratura è movimentata, oscilla, simula lo sguardo di qualcuno, e viene definita soggettiva), e l’omicidio si compie.

Prendiamo il riverbero vocale: due tipi di sillabe (“ch” e “ah”) ciascuno in due sequenze, di tre ripetizioni; nelle sequenze essi si mischiano tra loro, poiché uno viene prodotto prima della fine dell’altro. I due gruppi di suoni sono distinti tra loro, vi è uno stacco deciso.
L’effetto viene creato con la pronuncia ravvicinata al microfono di una persona, che viene poi riverberata: “ch ch ch”... “ah ah ah”. All’inizio si è pensato alle voci di un coro, ma ciò non conciliava con l’esigenza di un budget ristretto. Le sillabe riprendono la frase di una scena posta verso la fine del film, “kill her mum”, precisamente “kill” e “mum”, e vengono ammorbidite.

 Si pensa anche che le sillabe pronunciate siano “ki ki ki”... “ma ma ma”, che corrispondono a vere sillabe della frase, ma il suono non sarebbe stato addolcito in questo caso. Questo per dare più senso alla loro derivazione. Ma se ascoltiamo bene ci possiamo rendere conto che è la prima versione a rispecchiare quello che si sente.

Alla fine dei primi 37 s del Main Theme si sente il riverbero.
La frase viene detta dalla signora Voorhees. È come se fosse un incitamento all’omicidio per Mrs. Voorhees (l’assassino). Essa immagina le parole che il povero Jason, suo figlio, morto anni prima, le stia dicendo, motivandosi ancora di più nello sterminio di coloro che mettono piede nel campo, già mossa dall’idea di cercare vendetta. Nessuno controllava il piccolo mentre faceva il bagno. Una coppia aveva un rapporto in riva al lago e la madre stava nelle cucine. Nessuno lo sentiva gridare e lui moriva.





La colonna sonora è una parte fondamentale in questo film per ricreare un’idea di ansia e paura. Tutti i film horror dovrebbero produrre suggestioni con la musica: alcuni ci riescono altri no; alcuni sono efficaci per musica e inquadrature, altri solo per le seconde. E in Venerdì 13 la musica è un capolavoro.




Saluti dal buon Harry,
il compositore

venerdì 30 settembre 2016

Scatti e pellicole del passato



Facciamo un passo indietro di molti anni, ma anche di pochi, e rimaniamo ad osservare. Entriamo dentro film horror del passato attraverso fotografie: scopriamo la storia degli scatti e quella dei lungometraggi.

Hanno qualcosa di speciale le foto? Esploriamo!










        Il primo zombie in stile Romero

















Night of the Living Dead (1968) di George A. Romero


 Lottano davanti alla cinepresa. Uno per sopravvivere, l’altro da morto. Uno è un uomo, l’altro è uno zombie. Il primo cerca di liberarsi dalla presa di ferro del secondo. Poi cadono, l’uomo sbatte la testa e sviene. E poi un primissimo piano: volto contratto e pallido; sguardo fulminante; astinenza da carne e sangue. Lo zombie ha individuato un’altra vittima e punta contro.


Se l’avessero seppellito sarebbe tornato in vita, era solito dire per scherzo alla figlia. Per sua scelta, alla fine, fu cremato. Samuel William Hinzman, detto “Bill”, è il primo attore che nel cinema ricopre i panni di uno zombie, nel paradigma di non-morto antropofago proprio dell’immaginario collettivo. Dove? In Night of the Living Dead, film low cost del giovane e determinato George A. Romero. Bill è uno dei sette attori assunti per il progetto, con cui nasce la Image Ten Productions, formata da lui, Romero e il rimanente staff.
Night of the Living Dead parla di uno scenario apocalittico in cui Barbara, Ben e altre persone cercano di difendersi dall’attacco di morti riportati in vita probabilmente dalle radiazioni pericolose di una sonda spaziale danneggiata. I personaggi si riparano dentro le mura di una casa disabitata. Sopravvivrà qualcuno?


La cifra spesa per il film raggiunge i 114.000 dollari, moderata per un film di quegli anni. Ciò non compromette il valore del film, per cui è stato selezionato dalla Library of Congress per l’archivio cinematografico dato il significato culturale, storico ed estetico. Di questo horror è evidente come i vari punti di vista e i movimenti di macchina repentini e confusi producano un senso coerente all’atmosfera di paura e frenesia degli avvenimenti apocalittici. Si cerca materiale. Si sbarrano finestre e porte. Si lotta con creature prive di ragione e potenzialmente inarrestabili. Nei momenti movimentati la visione della cinepresa sono gli occhi di uno spettatore che da vicino punta i soggetti di fronte : il suo sguardo è fisso e lo spostamento continuo descrive in modo preciso la posizione e le azioni dei soggetti marcando lo stato d’animo agitato. L’autonomia della cinepresa è un carattere diffuso nei film horror, presente anche in questo, fondamentale per le esigenze espressive del regista.

Nella pellicola in bianco e nero non mancano errori. Sono contraddizioni sul piano logico che non ostacolano, però, la fluida e gradevole visione: la il buio della notte cala all’improvviso da un’inquadratura all’altra; nello stato di decomposizione in cui dovrebbero trovarsi gli zombi, all’inizio o avanzato, i muscoli sono rigidi e i movimenti complicati (a qualche ora dalla morte ha inizio ciò, il cosiddetto “rigor mortis”), ma le gambe non sempre risultano difficilmente flessibili (per i passi dovrebbero esserci quasi delle cadute), e le braccia si muovono fluidamente. Come affermò lo stesso Romero gli zombie non corrono, poiché le caviglie si spezzerebbero. Essendo morti viventi il pensiero è giusto, ma nel film sembrano troppo agili. Possiamo sottolineare l’errore, ma non pretendere di certo la perfezione da un film il cui genere è ancora in sviluppo alla fine degli anni 60’.































Friday the 13th (1980) di Sean S. Cunningham


 “Sai nuotare?”. Al giovane Ari Lehman, durante la sua audizione per Friday the 13th, è stata posta questa domanda. Si cercava qualcuno per la prima apparizione del personaggio di Jason, nel primo film della saga horror, e Ari era uno dei candidati. Egli si sarebbe mostrato nel colpo di scena verso la fine e avrebbe rivestito un ruolo minore, proprio come quello che lo aveva visto nei panni di Roger in Manny’s Orphan, anche questo di Cunningham. Ed è proprio qui che il regista ha una buona impressione dall’attore ed è portato a sceglierlo per il cast. Visibile solo per 5 secondi, mentre trascina verso il fondo di un lago Alice, che sta nel bel mezzo in una barca, Ari e il suo volto deformato sono diventati noti al pubblico e parte della cultura filmica di quegli anni e di anni dopo.

Grande merito va alle doti artistiche di Tom Savini che trasforma interamente la testa dell’attore, conferendo grande terrore al personaggio. Tom incominciò ad operare nei film prima come make up artist e tecnico degli effetti speciali (Deathdream, 1972, è il primo titolo) e poi come attore. Grazie alle due arti, unite in una sola figura, fu assunto anche per i film Friday the 13th: The Final Chapter, The Texas Chainsaw Massacre 2 (Non aprite quella porta 2), H.P. Lovecraft’s : Necronomicon (in questi come make up artist/tecnico degli effetti speciali), Grindhouse-Planet Terror, Django Unchained (qui come attore). Tom è anche direttore: Night of the Living Dead (remake di quello del 1968); tre episodi della serie tv Tales from the Darkside; una parte di The Theatre Bizarre.

Friday the 13th è l’episodio iniziale della saga omonima, la quale racconta le vicende di Jason, un ragazzo resuscitato dall’aldilà che riversa la sua vendetta spietata verso i campeggiatori di Crystal Lake, ma anche verso chiunque trovi nel suo cammino. Il film iniziale vede la madre a vendicare il figlio, morto anni prima, nella tenera età, per la mancata attenzione dello staff del camping che doveva sorvegliare su di lui.








      
          














      
     Phenomena (1985) di Dario Argento



A stento sta a galla. Urla: “Aiuto!”. Va giù con la testa. Una boccata d’aria. “Aiuto!”. Sangue e animaletti striscianti l’uno sull’altro intorno a sé. Ossa private della carne, tra cui ben distinti dei teschi. In questa vasca, costruita nel pavimento e nascosta nella casa di un killer che non vede fine agli omicidi, le vittime esanimi sono consumate dalla fame di questi insetti. Jessica fa di tutto per salvarsi. Cerca di aggrapparsi ai bordi ma scivola. La porta si apre ad entra il killer.

“Sono larve di una mosca, la “grande sarcofaga” : un nome minaccioso, degno dell’attività dell’insetto che le porta. Si nutre esclusivamente di cadaveri o di resti umani. Il distruttore. Il divoratore supremo”. In questo modo il professor John McGregor parla di due specie di insetti che ha analizzato. Egli è uno dei personaggi di uno dei maggiori prodotti di Dario Argento, Phenomena. Le larve sono le stesse che riempiono la vasca (che vediamo in parte nella foto), in cui Jessica Corvino, protagonista del film, è caduta. Ciò avviene a quasi 15 minuti dalla fine dell’opera. La ragazza si trova nella galleria della casa di quello che ha scoperto essere l’assassino degli omicidi misteriosi della città. Sta componendo un numero dal telefono per chiamare e chiedere aiuto, ma viene presa da un uomo in catene, un ostaggio, attraverso un buco che collega la galleria ad un stanza, e viene portata qui. Lei si agita, si libera dalla presa, indietreggia e cade nella vasca.

Il film narra di una ragazza, Jennifer Corvino, che viaggia a Zurigo per studiare in una accademia internazionale. Alloggia in un pensionato di sole ragazze, ma non si trova ben inserita. Lei ha una forte passione per gli insetti per la quale li ama tutti. Sono gli unici amici che la accompagnano dall’inizio alla fine di questa avventura tragica, ma dal grande fascino, in cui l’uomo e la natura che si manifesta (in greco phaìnomai, manifestarsi, da cui phainòmena, manifestazioni, fenomeni) nei suoi animali sono due personaggi importanti. Essi sono un duo che collabora a scovare un assassino che non vuole fermarsi dal mietere vittime, e insieme trionferanno.


Il titolo del film è riconducibile anche all’ambiente caratteristico di Zurigo: qui soffia un vento particolare, che favorisce la fioritura e lo schiudersi delle uova di larve, ma che causa anche, nelle persone, mal di testa e comportamenti insoliti, che potrebbero portare alla pazzia. Il vento è un altro fenomeno. Non si vede ma influenza la vita attorno, che accarezza scorrendo. Benefico, ma soprattutto pericoloso.






















Dolly Dearest (1992) di Maria Lease



Da solo, nella notte. Quello che dovrebbe essere il guardiano della fabbrica si trova dentro l’edificio, e mentre intraprende un dialogo immaginario con una bambola, la pone seduta su un tavolo vicino. Poi si allontana poiché ha sentito dei suoni. Abbiamo una momentanea stasi del filmico, non vi sono movimenti di macchina. Solo quello del capo della bambola: essa muove la testa a sinistra e guarda, guarda verso di noi. Nella foto in alto è rinchiuso l’istante in cui la bambola guarda con la testa ruotata. Non un fatto normale, ma un oggetto inanimato che si muove spontaneamente.

Era un dono del padre. Una bambola graziosa di cui Jessica sarebbe diventata la padrona. Ma il male contenuto in quell’oggetto ludico prima influenzerà la bambina e poi si prenderà il suo spirito.

Dolly Dearest riguarda una famiglia che si trasferisce in Messico per motivi di lavoro del padre, il quale vuole riaprire una fabbrica di bambole e vendere. Nonostante lo spostamento la situazione sembra tranquilla, ma dopo che la figlia del commerciante riceve in regalo un modello di bambola, la situazione incomincia a farsi tesa. Tutte le bambole, e pure questa, sono possedute da uno spirito della cultura di un popolo antico del luogo, risvegliato dalle ricerche presso le rovine storiche. La bambina, la famiglia e le persone che sono coinvolte nelle vicende dovranno vedersela con queste bambole assassine.

La bambola della bambina, Dolly Dearest, il nome commerciale, ma anche tutte le bambole prodotte nella fabbrica camminano, parlano , urlano. Straordinario. Malefico.

Cara, carissima Dolly.








Shutter (2004) di Banjong Pisanthanakun e Pargpoom Wongpoom


Si rivolge allo spirito. “Esci fuori”. Vuole farla finita con questa persecuzione, vuole liberarsi di questa presenza e dimenticare il passato. Il fantasma si mostra nelle foto, quindi incomincia a scattarne. Una dopo l’altra. Non si ferma. Ma stavolta niente di anormale, nessuna figura. Poi la rabbia e lancia la macchina fotografica. Ne esce una foto. L’ultima fotografia istantanea.

“Sembra che gli spiriti, a volte, vogliano rimanere accanto a quelli che amano.”
Fasci di luce, ombre, elementi imprevedibili possono essere errori delle nostre foto dati dalla casualità dei momenti o dalla distrazione; ma se sembrano inspiegabili può capitare di associarli (per scherzo o seriamente) a qualcosa di immateriale, a spiriti. Tun e Jane, protagonisti del film horror Shutter sono portati a credere a queste presenze, per le strane foto che scatta Tun.

Cercando risposte alle loro domande si rivolgono alla redazione di una rivista che pubblica foto di questo genere. “Sembra che gli spiriti, a volte, vogliano rimanere accanto a quelli che amano.” Così il direttore afferma durante la conversazione con i due ospiti. Ci sono tanti falsi, ma altrettanti scatti incredibili. Qual è la verità di queste foto, molte delle quali non manipolabili perché istantanee? Sembra che essa si trovi nella foto e spesso si riscopre nel legame tra le figure evanescenti e le persone che condividono lo spazio della stessa foto.

Il film racconta le vicende di due fidanzati, Tun e Jane, e il loro contatto con il paranormale. Lo spirito di una ragazza che ha amato Tun in vita perseguita lui e il suo gruppo di amici, volendo ucciderli tutti. La verità sul passato si scopre attraverso le foto, quelle nascoste, e il fantasma del presente si rivela soprattutto attraverso gli scatti. Molto è filtrato dalle fotografie.

Il titolo del film, Shutter, che vuol dire “otturatore”, indica il dispositivo meccanico o elettronico che ha il compito di controllare per quanto tempo la pellicola o il sensore (nelle fotocamere digitali ) resta esposto alla luce.







Con le foto il tempo si è fermato: abbiamo penetrato il momento e conosciuto la scena e chi l'ha vissuta in prima persona. Gli scatti mostrano film del passato. Abbiamo visto e sappiamo ciò che è stato. Il passato non esiste più, è morto. Ma senza il passato non possiamo andare avanti.


Friday the 13th ha dato tanto al genere horror.
Fidatevi di loro!





domenica 3 luglio 2016

Presentazione

"Rosso su Bianco" è una pagina che si propone di esplorare la parte dimenticata o poco conosciuta dell'horror e di rianimarla.

Il nome riprende l'espressione "mettere nero su bianco" : non faccio riferimento alla parte "dell'espressione" (della manifestazione concreta) delle mie parole (poiché scrivo in nero), ma ai contenuti, storie di sangue.

Intendo dividere gli articoli in tre categorie : personaggi, temi, top 5.

Buona lettura!


Un pericolo tecnologico : Videodrome

Si prenderà il nostro cervello e ne farà carne nuova. È una cancro che non si vede, ma non meno letale degli altri. Il potere persuasivo della televisione va oltre quello che ci aspettiamo, perché ha piena libertà se non siamo consapevoli nell’uso del medium. 
Questo potere è portato all’estremo in Videodrome, un film horror del 1983 scritto e diretto da David Cronenberg.




La degenerazione del medium
Se la televisione esiste, essa può veicolare ogni messaggio, poiché la comunicazione è libera e ha tante forme. Ne deriva che questo mezzo può diffondere programmi di ogni tipo. I fornitori di contenuti (gli editori) possono scegliere cosa trasmettere, e devono attrarre il consumatore aumentando il suo interesse verso lo schermo. Loro controllano quello che guardiamo e danno allo spettatore quello che vuole. Ma spesso lo spettatore vuole violenza e scene a sfondo erotico, che soddisfano i suoi istinti e scaricano la tensione della quotidianità. Questi temi sono richiesti. Come? Soffermandosi sui canali, passando tempo sulle trasmissioni, e le cifre dell’ascolto salgono. Le persone si divertono, ma il piacere dell’irrazionale genera una sensibilità diversa e una ricerca dell’imitazione e di contenuti di quel tipo (sempre più intensi). Nessuno dice che debbano mancare scene forti in TV (che a volte producono più significato in un film, serie TV, altri prodotti), ma tutti dobbiamo essere consapevoli di un limite oltre il quale guardare fa male, è pericoloso, e ci cambia. La degenerazione del medium sta nella sua possibilità di emulare la realtà in diversi suoi aspetti e dunque anche nel male. Noi abbiamo il telecomando : cambiamo!




Videodrome descrive la situazione di Max Renn, il proprietario di una rete (la Civic TV, canale 83) che cerca un prodotto con una maggiore componente violenta e sessuale per aumentare gli ascolti. La libertà del suo ruolo di venditore lo porta ad un livello di contenuti più forti (torture e omicidi), quelli offerti da Videodrome. A lui interessano e possono interessare al pubblico. Ma la troppa libertà si rivela un arma contro di lui : è il primo fruitore e le trasmissioni manipolano la sua mente fino ad ucciderlo.


Il medium è il messaggio
Lo slogan “il medium è il messaggio” è una frase associata al sociologo canadese Marshall Mcluhan (1911-1980). Secondo lui ogni mezzo di comunicazione, ogni canale, ha delle caratteristiche strutturali che modificano il modo in cui viene recepito il messaggio, influenzando l’utente nei comportamenti e nei modi di pensare. Il messaggio ha un suo contenuto e comunica, ma anche il canale comunica, ha una sua funzione : non è neutrale e manipola il messaggio vero e proprio del medium. Prendiamo la televisione. Se il canale permette soltanto il passaggio del messaggio dalla fonte (stazione televisiva) al ricevente, il ricevente sta fermo e ascolta e basta, può essere inchiodato in una stasi fisica e psicologica, e passivo.







                                                   


In Videodrome il canale opera attraverso il segnale di onde elettromagnetiche che attaccano il cervello e provocano un tumore : questo annebbia la mente e causa allucinazioni. La realtà è alterata : il messaggio diventa materia vivente, ambientazioni, corpi informi o definiti che escono dallo schermo. Max si ritrova nei luoghi di Videodrome e subisce mutazioni fisiche : la sua pancia si apre rendendo visibile il suo intestino e la sua mano (alla fine) è unita alla pistola in una nuova carne. Dalla prima visione si presentano questi effetti. Se uno è vittima una volta lo sarà per sempre, se non fa qualcosa, e la continua visione del canale amplifica i danni. Se si espone la mente a continui attacchi lo stato fisico viene accentuato. Riguardo questo film parliamo di conseguenze prima psicologiche e poi fisiche. “Prima controlla la vostra mente, poi distrugge il vostro corpo” (frase della locandina del film).
Il personaggio del professor Brian O’Blivion (il cognome dice tutto, dimentica!), il quale conduce il programma Videodrome, è costruito sulla base dello slogan di McLuhan. Il suo pensiero lo porta ad affermare che ormai noi guardiamo attraverso la televisione, che diviene il nostro occhio: la televisione influenza la percezione della realtà e crea un’esperienza distorta. Le sue parole:

La lotta per il possesso delle menti, in America, dovrà essere combattuta in una videoarena, col Videodrome. Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell'uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione.”



L’immediatezza
La televisione può condizionare la nostra mente e accentuare gli istinti, modificando la percezione del reale, la quale è essa stessa il reale. Quando questo mezzo si avvicina all’idea di invisibile, trasparente, si fonde con la realtà creando una maggiore compartecipazione dello spettatore e rispettando la logica dell’immediatezza.
Il potere della televisione in Videodrome produce allucinazioni che spingono chi ne soffre ad un’immersione in un mondo che è proiezione della nostra mente. Le immagini del segnale vivono nella mente delle persone e sono percezione di una falsa realtà.




La realtà immersiva : l’immagine televisiva
La televisione è immagini in movimento e rappresenta un flusso continuo di informazioni unidirezionali che possono portare alla passività dello spettatore.

Il segnale televisivo inoltre ricopre lo spazio di un rettangolo in tutto lo schermo e ci permette una visione completa e grande delle immagini (hanno un’ampiezza che si estende fino alla cornice del televisore). Ciò favorisce l’aspetto immersivo del medium : più l’immagine è grande, meno possibilità abbiamo di incrociare lo sguardo con altri oggetti del luogo in cui siamo, che invece fanno parte della realtà e non sono rimediazione (al cinema l’esperienza è ancora maggiore). Di certo noi possiamo allontanarci dallo schermo ed evitare tutto questo (e prevenire la stanchezza degli occhi), ma ci sono momenti in cui ciò non succede e riceviamo gli effetti del medium. Il carattere immersivo è dato poi dalla presenza di un solo rettangolo di immagini. Così l’ipertestualità della televisione (immagini, scritte, varie rappresentazioni) è un’unica composizione. Mezzi come internet sono differenti: troviamo tanti riquadri per ogni funzione, barre di strumenti, titoli la cui presenza divide la nostra attenzione e non ci permette di essere catturati da una sola funzione. La televisione ha un solo riquadro.


Cronenberg ci affida un’opera visionaria che parla di possibili sviluppi futuri della nostra società. Non vivremo forse quello che si vede nel film, ma possiamo essere in pericolo se non riusciamo a controllare la presenza della televisione nella nostra vita. La televisione nasce per unire e istruire, ma nelle mani sbagliate crea disordini, e la cattiva televisione esiste in forme minori. In ogni caso dobbiamo essere noi a prendere il giusto da ogni cosa e imparare ad essere padroni di noi stessi.

Stiamo attenti!                                                                              
David Cronenberg con alle spalle
una scena di Scanners

Attraverso il cattivo : dr. Deker

Due bocche : una di metallo sopra quella vera. Dai bottoni non filtra luce ma la sua lama colpisce sempre. Philip K. Deker e la sua maschera spargono sangue a non finire. Il teatro degli orrori? Ovunque, nella città e nel cimitero di Midian. Vittime di ogni tipo nelle 2 h e 25 m del film “Nightbreed” di Clive Barker (1990), distribuito in Italia con il titolo “Cabal”.




L’opera riguarda la figura di Boone, un uomo affascinato da un mondo di mostri visto nei suoi incubi, che scopre della sua esistenza nella realtà e diviene parte di questo, andando incontro ad una guerra tra il suo nuovo popolo e gli umani che lo minacciano. Dr. Deker è nemico di Boone. Egli è uno psichiatra e un assassino. La maschera che indossa è inquietante, ma non quanto chi sta sotto.

The Buttonface : la maschera
Dr. Deker è principalmente un assassino. Di lui colpisce l’aspetto, una copertura, una maschera. Non si era mai visto niente di simile : è un elemento assolutamente originale e del film, che diventa iconico per chi lo guarda.

Questa è un rivestimento in lattice della testa e del collo. Della faccia ricalca solo i tratti essenziali della forma e del naso. Il risultato è un lavoro chirurgico: bottoni che sostituiscono occhi, pressati nella zona oculare ; bocca spostata con le labbra di ferro della zip ; cuciture da Frankenstein ; pelle tirata verso il naso e gli occhi. Al posto degli occhi vi sono due bottoni neri con una croce bianca posti in modo tale che le linee delle croci si tocchino in diagonale. Le narici sono due linee curve, allungate, fatte di cucitura, e puntano verso l’esterno della faccia. Dove si fermano queste, sotto, abbiamo la bocca, una cerniera che va oltre il confine facciale. Narici e bocca rompono la simmetria del viso. Sembra quasi che da un punto in basso della testa qualcosa stia risucchiando le parti del viso, deformandolo. Si trovano altre cuciture : tre sopra la testa; una alla fine della bocca, fuori dalla faccia, che prosegue dritta all'indietro; una che nasce da questa, vicino alla bocca, e attraversa il collo in obliquo; una sulla mandibola a sinistra. Sulla superficie sono sparse delle piccole rientranze.

La maschera e gli omicidi
Il nostro uomo è un assassino che stermina famiglie. Fa la sua comparsa all’inizio del film, in cui si macchia l’animo di uno dei tanti delitti, una delle altre famiglie cadute ai suoi piedi. I nuclei familiari sono stati oggetto del suo massacro, ma egli uccide anche i mostri e chiunque interferisca con suoi piani. Boone è tra questi.

Le armi possedute da Deker sono diverse. Una delle scene mostra la quantità e la varietà degli strumenti del carnefice. All’inizio abbiamo il dettaglio di un giornale, lasciato cadere da Deker, che riporta in prima pagina il furto della salma di Boone (egli è morto da umano e rinasce da mostro). L’uomo poi riproduce una registrazione con le parole di Boone, si siede e ascolta. Al terzo stacco, un’inquadratura ordinata per la simmetria del fondo della stanza e la prospettiva degli elementi, tra cui il tavolo (alla cui fine sta il dottore), include l’equipaggiamento che prima la macchina da presa nascondeva. L’inimmaginabile. O forse no da una persona così enigmatica che scopre piano piano ogni aspetto di sé, uno più terribile dell’altro. Sul tavolo: 17 armi tra spade e coltelli, delle lame ricurve, uncinate, dentellate. Quelle che maneggia nel film sono soltanto due: un machete e un coltello a serramanico.



Chi è Philip Deker?
Il nostro personaggio due-facce è un killer ma anche uno psichiatra. Le due figure riunite in una sembrano scontrarsi, sembra esserci una logica controversa. Ma a Deker non interessa fare il medico se non per celare il suo profilo di assassino. Inoltre una persona dedita all’omicidio di infanti e più grandi (6 famiglie in 11 mesi), disturbata e incosciente, fredda e disumana, non potrebbe mai curare la mente degli altri. La terapia dei sogni con Boone è l’occasione per incastrare un innocente negli omicidi compiuti : egli raccoglie i dati sui sogni del paziente, popolati da mostri, tra i quali vi è Boone, un altro mostro che uccide. Questa è la testimonianza di un uomo senza peccato, turbato da tanti incubi orribili, ma il dottore usa le sue parole per tracciare alla polizia il ritratto di un uomo instabile che possa essere coinvolto negli atti efferati. Deker è uno specialista che segue in sedute psichiatriche Boone. Chi altri meglio di lui può conoscere la mente del paziente? I dati vanno contro Boone, e lo associano ad un killer. Tutti ci credono. Anche la sua ragazza, Lori. Il dottore è abile nell’argomentare e persuadere, ed è freddo, non si scompone. L’apparenza delle cose prende il sopravvento sulla verità, che solo l’innocente conosce.
                                                                        


         


  





"Sono la morte. Pura e semplice." Il perché uccide è un elemento x del processo di focalizzazione esterna del film. Questa è una funzione per cui il flusso delle informazioni del personaggio (pensieri, emozioni, sensazioni, e altro) sono sconosciuti, poiché il narratore non ce li mostra. Il personaggio sa di più rispetto allo spettatore e non si rivela apertamente. Il regime di informazioni cambia nel momento in cui noi sappiamo quanto un personaggio, o più, attraverso immagini e parole. E proprio quando Deker tiene legato alla sedia con una corda il proprietario di una stazione di sevizio, per interrogarlo sui mostri di Midian, egli incomincia a parlare e a rendere più chiara la sua figura. “Purifico il mondo distruggendoli. E purifico me stesso.” Uccide chi per lui è inutile per la società. Seleziona famiglie di incapaci che producono altra inettitudine e le stermina. Lo stesso fa con i mostri : non tollera il diverso, per forma e capacità (anche sovraumane), e vuole conformare il mondo eliminando le irregolarità e le stranezze.



Se la maschera passa inosservata, di certo non il carattere di questo personaggio. L’orrore del film sta nell’aspetto dei personaggi e soprattutto nelle loro azioni. E la fonte maggiore di orrore si chiama Philip K. Deker.